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27 gennaio 2009
Giorno della Memoria

 
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C'era una volta Auschwitz

di Marco Innocenti

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C'era una volta Auschwitz. L'ingresso portava una beffarda scritta in ferro battuto: "Il lavoro rende liberi". Le liste di metallo che sostenevano le lettere in stampatello apparivano come delicate, tranquillizzanti, quasi leziose sottolineature. Gli ebrei lasciavano i vagoni piombati dei treni per recitare un copione già scritto: la discesa all'inferno. Erano esseri umani colpevoli di vivere, di essere se stessi. Stavano per diventare dei dannati, vite spezzate, corpi che sarebbero entrati in una stanza per uscirne fumo e cenere. Vittime della negazione dell'uomo.

Auschwitz era la mostruosità del quotidiano, la catena di montaggio dell'odio, l'ingegneria criminale, il lager dove le espropriazioni fisiche e psichiche riducevano i corpi a fantasmi senza sesso e senza carne, abitati dal terrore, e dove i bambini erano trasformati in volute di fumo sotto un cielo muto. Era il tifo, i pidocchi, i reticolati, le baracche, le camere a gas, i corpi nudi e vergognosi dei vivi, quelli rattrappiti e sconciati dei morti, occhi, bocche, sorrisi che non c'erano più, i morti di oggi e i morti di domani, le lacrime che cadevano e le lacrime non piante, migliaia di piedi che si muovevano, che andavano, ma andare dove su quella terra maledetta?

Di giorno il campo pareva un villaggio di schiavi, di notte un cimitero sotto la luna, con il silenzio che calava come una gelata: tante persone con un solo, immobile silenzio. Davanti a un forno crematorio c'era l'albero di Auschwitz, che soffrì e alla fine rimase senza primavere. Le sbarre nere percorse dall'elettricità erano ingentilite dai cappucci di ceramica bianca, la luce dei riflettori batteva sui tetti che scintillavano, la pioggia gocciolava dal filo spinato, il vento soffiava la neve minuta contro il viso, il fumo acre e grasso saliva dai camini giorno e notte posandosi sulle cose come una pellicola unta e disgustosa, l'erba non cresceva più perché anche la natura era morta.

Gli uomini erano povere foglie percosse dal vento. Le SS cancellavano i loro nomi, calpestavano i loro corpi, li spingevano nel grande oblio della Storia. Mettevano in scena la vita, proprio quando preparavano progetti di morte. La notte di Natale piantavano un pino nel cortile e lo decoravano con tante candeline. Notte santa, cantavano, notte d'argento. Poi ricominciavano a uccidere: la pietà, gli uomini, i bambini, la propria coscienza.

Così morì più di un milione di esseri umani. Dio si distrasse, calò la notte sulla ragione e Auschwitz divenne terra di Caino. Chi è morto, passato per un camino, è nel vento. Chi è sopravvissuto, è morto senza morire. "Mai dimenticherò tutto ciò - disse Elie Wiesel - anche se fossi condannato a vivere come Dio stesso".

Da allora sono passati più di sessant'anni e oggi Auschwitz si chiama Oswiecim. Davanti al lager fatiscente, quando è stagione, fioriscono le margherite gialle. Nel campo c'è ancora un piccolo pianoforte di legno che fece compagnia a un bambino nel suo ultimo viaggio. Quando il sole fa scomparire i vapori del mattino il lager per un attimo riappare come allora, silenzioso testimone del male, sinistro museo della memoria.

"Vedi - scrisse Paul Celan - come tutto balza su vivo proprio dove, profonda, c'è la morte".

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